Woke Washing e Brand Activism: se la strada è troppo semplice, non è quella giusta

Le aziende scendono in campo per salvare il mondo, ma il Woke Washing è dietro l’angolo. Adeguare il profitto alla causa sociale è un’arma che può rivelarsi efficace, ma va usata con molta cautela

Agire o restare fermi, oppure restare a guardare ma con una certa eleganza? Il Woke Washing, in italiano tradotto come “lavarsi la coscienza”, è una pratica utilizzata dalle aziende per guadagnare rispetto (e quattrini) dai propri consumatori attraverso l’appropriazione di tematiche calde a livello sociale nelle proprie campagne di marketing. Ma si può cambiare il mondo – o contribuire in piccola parte al cambiamento – acquistando una lattina di gazzosa o un reggiseno?

Di certo, l’immobilità davanti a problematiche di ampio respiro è ben peggio che acquistare un prodotto sponsorizzato da un’azienda che lo vende anche per partecipare alla sensibilizzazione di una tematica sociale. Il problema è come, quando e perché l’azienda utilizza tali temi per vendere un prodotto. Assodato che il profitto è uno dei cardini sui quali si regge una campagna di marketing, compresi i suoi obiettivi e i suoi mezzi – il Woke Washing diventa tale quando l’utente – o chi per lui – percepisce una falsa corrispondenza tra l’azione e la predicazione dei buoni propositi.

Un esempio è il Click Activism, un fenomeno che si verifica quando le persone cliccando e confermando la propria adesione ad iniziative benefiche hanno la convinzione che il loro compito nel portare avanti un cambiamento in un determinato ambito sociale, politico o ambientale sia finito lì.

L’attivismo è una pratica antica e porta con sé un bagaglio ingombrante e difficile da sostenere per una campagna di marketing che non ne riesce a sostenere i dogmi neanche alla lontana. Succede quando la causa che si va a sposare è totalmente estranea alla storia della propria azienda, ai valori che l’hanno definita nel tempo e che, soprattutto, l’hanno resa appetibile e apprezzata dal pubblico. Altro errore è “abbindolare” il cliente con tematiche che stridono l’una con l’altra. E poi c’è l’errore più madornale, quello che, una volta smascherato, lacera per sempre i rapporti non solo con il cliente, ma anche con l’immagine comprensiva che l’azienda ha con il pubblico, con gli altri brand concorrenti e con le risorse umane che vi lavorano o vi lavoreranno. Si tratta dell’incongruenza tra politiche aziendali e cause sposate e diffuse attraverso la campagna di marketing.

La responsabilità del brand quando si tratta di perorare una causa

In questo ambito gioca un ruolo importante la Corporate Social Responsibility, che dovrebbe essere sempre un cardine attorno al quale ruota qualsiasi campagna di sensibilizzazione. Il rischio di forti dissonanze tra ideali, valori e prospettive della responsabilità Sociale d’Impresa e le tematiche che vengono veicolate attraverso le campagne di sensibilizzazione può comportare la discesa inesorabile verso il Woke Washing.

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Di certo destreggiarsi tra le esigenze, sempre più ardite, di un allineamento tra profitto e benessere sociale non è affatto semplice, soprattutto per le aziende prive di una storia commerciale ben radicata. A volte, invece capita che proprio questa caratteristica sia un vantaggio per partire “già puliti” al fine creare un ecosistema di comunicazione con l’esterno adeguato alle esigenze complesse del pubblico. Già negli anni ’80, con il boom del Green Washing – che è tornato prepotentemente di moda – le aziende approfittavano di una sensibilità rinnovata verso le tematiche ambientali con campagne che spesso coglievano nel segno e portavano a casa consensi e proficui guadagni. Adesso, visto l’accorciamento delle distanze tra consumatore e azienda, in una sorta di scambio e “mutuo aiuto”, le cose si sono complicate. Soprattutto i più giovani appartenenti alle generazioni Z spesso e volentieri, se non credono non comprano.

Cosa è il Woke Washing: autentico o agevolato

Tuttavia sarebbe necessario istruire le nuove generazioni – e non solo – non tanto sulle tematiche sociali calde del momento, di cui sono spesso largamente a conoscenza grazie al bombardamento mediatico – ma su come funziona (ancora) il mondo del commercio e tenere a mente alcune informazioni utili per dirottare in maniera più etica i loro acquisti.

Qui di seguito ne elenchiamo alcune.

1- Woke Washing

Il termine Woke Washing deriva da un significato, espresso con il termine “Woke” (stare svegli) che si riferiva ad una consapevolezza su questioni sociali e politiche. Il termine, di cui l’espressione Woke Washing è figlia, venne istituzionalizzato negli anni ’30 e si riferiva alle questioni di pregiudizio e discriminazioni razziali che riguardavano gli afroamericani negli Stati Uniti. L’asserzione “Stay Woke” – stare svegli – nasce proprio in tale contesto e durante gli ultimi avvenimenti che hanno coinvolto la morte di Micheal Brown nella sparatoria del 2014. Il termine ha avuto un eco mondiale, reso ancora più celebre dallo slogan Black Lives Matter, tanto che nel 2017 è entrato a far parte dei vocaboli dell‘Oxford Dictionary.

Il Patrimonio di Marca può essere definito come il valore del rapporto tra domanda e offerta di mercato in una determinata circostanza, in particolar modo analizzando la sua forza e il suo potenziale nella nicchia di riferimento

2 – Brand Activism VS Woke Washing

Il Brand Activism è un tipo di attivismo sociale in cui le aziende si fanno vettore di processi di cambiamento, adeguando il profitto (o il non profitto) alla risoluzione di problematiche sociali, ambientali ed economiche, attraverso la comunicazione e la messa in atto di valori che esprimono tale intento. La differenza sostanziale con il Woke Washing sta nel fatto che in quest’ultimo caso il messaggio – il veicolo con il quale vengono trasmessi questi valori – si distacca dalle effettive pratiche all’interno e all’esterno dell’azienda, sia in termini di Corporate Social Responsability che in termini di implicazioni socio- politiche, attivismo sociale, certificazioni di terze parti e partnership. Nel caso di un autentico Brand Activism, l’azienda pone come limite, oltre il quale non affondare le proprie strategie di marketing e i propri introiti/benefit, le teorie messe in atto per difendere i valori che reggono il proprio contributo rispetto al cambiamento procurato dal proprio Brand Activism.

3 – Brand Equity e Attivismo Sociale

Nell’avvicinarsi ad un brand con l’intento di accogliere le sue azioni in termini di Attivismo Sociale, è bene conoscere alcuni aspetti importanti della definizione di Patrimonio di Marca o Brand Equity. Il Patrimonio di Marca può essere definito come il valore del rapporto tra domanda e offerta di mercato in una determinata circostanza, in particolar modo analizzando la sua forza e il suo potenziale nella nicchia di riferimento. Per valutare tale parametro è necessario tenere in considerazione aspetti come la conoscenza del marchio, la sua popolarità e la lealtà del brand rispetto ad alcuni principi che essa stessa trasferisce attraverso le azioni e la comunicazione con il consumatore. Tali fattori sono condizionati fortemente dal capitale immateriale determinato dalla Customer-Based Brand Equity, cioè al percorso fatto dall’azienda durante tutto il suo cammino (marketing, scelte di mercato, produzione, brand activism etc.) per arrivare alle generazione di risorse legate alla percezione di valore attuale da parte del consumatore.

4 – Cambiare il mondo insieme ma con comodo

A volte può succedere che l’inconsistenza di un brand activism autentico sia provocata da una compartecipazione tra utente e brand, in una sorta di lavaggio della coscienza “vicendevole”. Un esempio ne è il Click Activism, un fenomeno che si verifica quando le persone cliccando e confermando la propria adesione ad iniziative benefiche hanno la convinzione che il loro compito nel portare avanti un cambiamento in un determinato ambito sociale, politico o ambientale sia finito lì. Chiamato anche attivismo da salotto o Slacktivism, ha un’accezione piuttosto negativa, come spiega la definizione di Techopedia del 2018: “mostrare approvazione per una causa di modo che la persona si senta soddisfatta e gratificata per aver fatto la propria parte per rendere il mondo un posto migliore, senza che questo incida sulla propria quotidianità. ”

Conoscere prima di agire: la qualità del Social Activism

Al di là dell’effettiva genuinità dell’azione di attivismo sociale da parte del brand, è utile conoscere ciò che gira intorno alla causa da perorare: entità della causa, interessi economici da parte di istituzioni e industrie, situazione applicata a diversi contesti geografici e storici. Insomma, un po’ di tempo da perdere in quella che può definirsi un’informazione bilanciata sul contesto nel quale si è deciso di agire in maniera diretta o per conto di terzi.

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